Equipaggio zero

Recensione del film Equipaggio zero

Equipaggio zero

Il film sarà proiettato all’interno dell’evento Aspie Saturday Film, che si tiene presso la sede di Roma di CuoreMenteLab. Clicca qui per prenotare gratuitamente.

Georgia, 1977. Nella cittadina di Wiggly, la scuola locale viene selezionata dalla NASA per partecipare a un concorso il cui premio consiste in una singolare possibilità: i vincitori potranno infatti inviare nello spazio un messaggio rivolto a eventuali ascoltatori extraterrestri. Tra i frequentatori della scuola c’è la piccola Christmas, una bambina che ha sempre sognato di poter comunicare con gli alieni; una passione che si è intensificata in lei, in particolare, dopo la scomparsa della madre, avvenuta tempo prima. La ragazzina, solitaria e poco incline alla socializzazione (la sua unica amica è l’adulta Miss Rayleen, segretaria di suo padre) vede così vicino l’avverarsi del suo sogno; ma, per raggiungere l’obiettivo, Christmas dovrà scontrarsi col bullismo di una banda di suoi coetanei, subdolamente manovrati dalla perfida insegnante Allison Janney, decisa a vincere il premio. Christmas sarà costretta così a mettere da parte la sua diffidenza, unendosi a un gruppo di suoi coetanei ugualmente esclusi – perché considerati diversi – nella speranza di superare i rivali e aggiudicarsi l’ambito premio. A guidarli ci sarà proprio Miss Rayleen, i cui consigli permetteranno alla ragazzina di superare le sue paure e stringere nuove e impensabili amicizie.

Viene in mente il cinema di Wes Anderson, scoprendo il coté visivo di questo Equipaggio zero, commedia indie del 2019 diretta dal duo Bert & Bertie (al secolo Katie Ellwood e Amber Templemore-Finlayson). Un paragone dovuto soprattutto ai colori e all’atmosfera scanzonata e surreale della vicenda, al confine tra la fiaba contemporanea e l’allegoria preadolescenziale, che rimanda in particolare all’analogo coming of age avventuroso di Moonrise Kingdom, film che Anderson diresse ormai oltre un decennio fa. Rispetto ai lavori del più noto collega, tuttavia, l’opera del duo di registe è più esplicitamente rivolta al pubblico più giovane, mettendo al centro della trama i piccoli protagonisti ed evidenziandone sfide, difficoltà e confronti reciproci, alimentati solo tangenzialmente dal confronto col mondo adulto. Una scelta che permette di focalizzare la trama, in particolare, sul tema della diversità e su quello del riscatto, offrendo una sorta di versione semplificata (e mondata della componente inquieta e in nuce orrorifica) del gruppo dei Perdenti protagonisti del classico It di Stephen King.

La semplicità narrativa di Equipaggio zero richiama il mood fanciullesco e giocoso – di derivazione letteraria, radicato nei classici di Mark Twain – di tanto cinema americano per ragazzi; un filone che viene qui declinato nella sua variante da cinema indie, e adattato ai gusti di una generazione cresciuta a pane e piattaforme streaming (il film è arrivato in Italia direttamente su Amazon Prime Video). Il film, che è un racconto di formazione sui generis che esalta concetti tutt’altro che inusuali come amicizia, collaborazione e confronto con le proprie paure, ha il merito di risultare estremamente chiaro nei concetti che vuole esprimere, affiancando alla scorrevolezza del plot (merito anche della vivace regia) un potenziale pedagogico certamente prezioso. La “diversità” che accomuna il gruppo di protagonisti diventa la loro arma vincente, in particolare nel mantenimento di uno sguardo puro – non ancora contaminato, neanche in minima parte, dai compromessi necessari al mondo adulto – che solo l’età infantile può garantire. La sottotrama avventurosa e a sfondo scientifico, tutta racchiusa nell’”interesse speciale” della piccola protagonista, garantisce al film quel quid di fascino da cinema per ragazzi old style che manca da tanti prodotti simili contemporanei, e che qui ben si integra con la sua struttura narrativa.

Non si devono andare a cercare chissà quali significati nascosti, in Equipaggio zero, né una stratificazione di contenuto che è esplicitamente esclusa dalla sua estrema leggibilità, e dalla sua onestà nel raccontare una parabola morale (ma non moralista) che parla di infanzia e crescita; un messaggio rivolto in particolare a chi sia disposto a mettersi, per circa un’ora e mezza, ad “altezza bambino” come hanno fatto le due registe. Una scelta che non esclude, comunque, il necessario supporto – concreto e psicologico – del mondo adulto, qui espresso soprattutto da un’ottima Viola Davis; una guida e amica, per i giovani protagonisti, che sembra essersi particolarmente divertita in questa digressione più leggera e disimpegnata, rispetto ai ruoli in cui, normalmente, siamo abituati a vederla. Una parentesi sicuramente gradevole, per lei come per noi.

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