Mr. Beaver
Il film sarà proiettato all’interno dell’evento Aspie Saturday Film, che si tiene presso la sede di Roma di CuoreMenteLab. Clicca qui per prenotare gratuitamente.
Walter Black, amministratore delegato di una multinazionale che produce giocattoli, è stato un uomo di successo, ma ora da tempo è gravemente depresso. Abbandonato dalla sua famiglia, al culmine della disperazione l’uomo compie un maldestro tentativo di suicidio, durante il quale viene inaspettatamente fermato da un bizzarro pupazzo a forma di castoro, che poco prima l’uomo aveva trovato nella spazzatura: Mr. Beaver. Da allora il pupazzo, attaccato alla mano sinistra di Walter, si sostituisce a lui in tutto, aiutandolo a tornare in sella alla sua azienda e a recuperare il rapporto con la sua famiglia, in particolare con la moglie Meredith e col figlio più piccolo, Henry. Dopo un po’ di tempo, tuttavia, la bizzarra presenza del pupazzo inizia a essere mal tollerata da tutte le persone che circondano Walter, facendo precipitare in particolare il rapporto col figlio maggiore, Porter; nel frattempo, il carattere di Mr. Beaver si fa sempre più invadente e tirannico, al punto di pretendere di guidare in tutto e per tutto le azioni di Walter. La ricaduta nella depressione, per l’uomo, aggravata dallo sdoppiamento di personalità, si rivelerà presto dietro l’angolo.
È certamente uno sguardo insolito, quello che, al suo terzo film da regista, Jodie Foster ha scelto per parlare di un tema complesso come la depressione. Mr. Beaver, a dire il vero, non è il primo pupazzo/oggetto “animato” (o meglio, reso vivo da una mente deragliata) che il cinema americano ci ha fatto vedere nel corso della sua storia: viene in mente, come termine di paragone immediato, il pallone Wilson – con tanto di occhi e bocca disegnati – che teneva compagnia al naufrago Tom Hanks in Cast Away; oppure, andando più indietro nel tempo, l’inquietante marionetta che guidava le azioni del folle ventriloquo interpretato da Anthony Hopkins nell’horror Magic. Rispetto a questi esempi, tuttavia, Foster (che si ritaglia anche il ruolo della moglie del protagonista) sceglie per il suo film un tono sempre in bilico tra commedia e dramma, che carica la bizzarria della situazione di base – spesso volutamente sopra le righe, e certamente tale da strappare più di un sorriso – di un avvertibile senso di disagio e malinconia. Si sorride per gran parte della durata di Mr. Beaver, ma sono quasi sempre sorrisi amari, mentre l’iniziale tono da innocua commedia digrada progressivamente nel dramma.
Oltre che un film sul disagio psichico – comunque ottimamente reso da un Mel Gibson molto in parte, capace di essere in ugual misura divertente e inquietante – Mr. Beaver è anche e soprattutto un racconto del lato oscuro dell’American Dream: ovvero della sottrazione dell’idea stessa di fragilità, in nome di un’eterna performatività che semplicemente non ammette si possa aver bisogno di aiuto. Pena, letteralmente, il dover amputare una parte di se stessi. Tutto il dolore del protagonista viene celato nella fittizia (e disturbante) forma del pupazzo, vero surrogato individualista – e non a caso perfettamente funzionale alla sua risalita aziendale – di quegli affetti che la depressione aveva fatto allontanare. Il film funge così da cartina tornasole di una narrazione forzatamente vincente – tale da elidere in modo fittizio la possibilità stessa della sconfitta, o anche quella della semplice debolezza – che tiene insieme i rapporti sociali tutti, arrivando a contaminare anche quelli familiari. Ma proprio nel nucleo familiare e negli affetti, Foster intravede una faticosa possibilità di risalita: la precondizione è quella di guardare in faccia il mostro, accettarne la presenza, e anche la dolorosa possibilità che sia (forse) parte del proprio patrimonio genetico e familiare. Perché sia più fronteggiabile, e si possa tentare di impedirgli di prendere (di nuovo) il sopravvento.
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