Temple Grandin
Il film sarà proiettato all’interno dell’evento Aspie Saturday Film, che si tiene presso la sede di Roma di CuoreMenteLab. Clicca qui per prenotare gratuitamente.
Raccontare la storia di Temple Grandin significa parlare, come si dice spesso, di chi “ce l’ha fatta”. Un esempio che, in questo caso, è più che emblematico, trattandosi davvero (come la definisce il sottotitolo italiano del film di Mick Jackson) di “una donna straordinaria”: una persona che ha saputo trovare i propri punti di forza in una condizione apparentemente caratterizzata da gravi difficoltà, facendone la base di una vita professionale ricca di successi e riconoscimenti. La storia di Temple non ha bisogno di presentazioni, ma la riassumiamo comunque qui in poche parole: nata nel 1947, figlia di una ricca famiglia statunitense, diagnosticata a 2 anni con un generico “danno cerebrale” (la diagnosi di autismo arriverà solo molto tempo più tardi, dopo i 40 anni), supportata da subito da una madre che ne ha rifiutato fermamente il ricovero in una struttura specializzata. Con una mente caratterizzata da un pensiero visivo ipersviluppato, una straordinaria attenzione ai dettagli e una memoria fotografica eccezionalmente vivida, la Grandin, dopo la laurea in psicologia e il master in zoologia, ha rivoluzionato col suo lavoro il trattamento del bestiame negli allevamenti intensivi, proponendo un metodo capace di essere contemporaneamente più rispettoso per gli animali e più conveniente per le aziende. Parallelamente alla sua attività di professoressa associata di zoologia, si è dedicata all’attività di divulgazione della condizione autistica, scrivendo libri e articoli in cui racconta se stessa, e tenendo conferenze sul tema.
Il film televisivo di Mick Jackson, prodotto dalla HBO, si confronta quindi con un soggetto ingombrante, da trattare con attenzione come tutti i personaggi che (a torto o a ragione) vengono eletti quali portavoce di gruppi specifici. E ciò che emerge, dalla visione, è innanzitutto il rispetto per il soggetto rappresentato, il non arretrare di fronte alla rappresentazione plastica delle difficoltà (anche molto visibili) che la condizione della Grandin ha comportato, la coraggiosa scelta di utilizzare un’unica attrice per il personaggio lungo oltre un ventennio di vita (dalla vacanza nel ranch della zia, nel 1962, al suo primo discorso pubblico sul tema dell’autismo, a metà anni ‘80). Questo Temple Grandin – Una donna straordinaria si affida ovviamente, in buona misura, all’ottima interpretazione della protagonista Claire Danes: quest’ultima, forte anche di una buona somiglianza fisica con la Grandin, riesce a tradurre in gesti, espressività e parole la realtà di una condizione complessa e multiforme come quella dell’autismo ad alto funzionamento, riuscendo a non scivolare mai nel cliché o nell’esasperazione grottesca e inconsapevole dei tratti, mantenendo al contrario un’ottima aderenza “mimetica” al suo oggetto. Ma lo stesso regista, da par suo, riesce a dare una forma plastica, anche visivamente accattivante, alla struttura di pensiero della protagonista, rappresentandone sovente sullo schermo le visualizzazioni, facendoci gettare uno sguardo ravvicinato sulle sue peculiarità sensoriali, senza per questo tradire il carattere realistico della rappresentazione. Il film di Jackson non aspira ad essere un’opera visionaria, mantenendosi al contrario sempre ancorato ad una classica narrazione da biopic: il suo proponimento è semplicemente quello di mostrare (anche) dall’interno il punto di vista, ovviamente peculiare, del soggetto che ritrae.
Certo, sintetizzare in un film di un’ora e tre quarti una vita così complessa come quella di Temple Grandin non era affatto compito facile; e in questo senso non si può non sottolineare come il film vada incontro a inevitabili omissioni, a sintesi che possono far storcere il naso, oltre che ad accomodamenti dei fatti per esigenze narrative. A partire dalla scorretta evidenziazione di una diagnosi precoce di autismo (in realtà, come si è detto in apertura, giunta decenni più tardi), per finire col discorso finale nel congresso della Autism Society of America (che in realtà non ebbe il carattere estemporaneo che vediamo nel film, ma fu al contrario il risultato di un invito ricevuto un anno prima), il film si prende molte libertà nella rappresentazione della vita e del lavoro della Grandin, cercando di rispettarne i tratti salienti più che l’esatta cronologia. Una scelta tesa, ovviamente, a massimizzare l’impatto sullo schermo del soggetto, e a renderlo accattivante per lo spettatore più o meno occasionale. La vita dei familiari della giovane Temple viene lasciata di fatto sullo sfondo (totalmente assente la figura del padre e quella del secondo compagno della madre), così come molto sfumato e poco “pesante” narrativamente si rivela il suo rapporto con i compagni di studi durante il periodo del college. Si tratta comunque, come si è detto, di un’inevitabile operazione di selezione del materiale da portare sullo schermo, nel tentativo di rappresentare al meglio un percorso umano e professionale pressoché unico. Un tentativo che comunque possiamo considerare in gran parte coronato da successo, interessante sul piano estetico oltre che prezioso (nell’ottica di un consumo il più largo possibile) dal lato divulgativo. Per chi, poi, vorrà approfondire ulteriormente la vita e l’attività di Temple Grandin, i suoi scritti sono (per fortuna) a disposizione del pubblico. La capacità del film di Mick Jackson di incuriosire e spingere all’approfondimento, in questo senso, resta comunque innegabile.
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