The Son

The Son, la recensione

The Son

Il film sarà proiettato all’interno dell’evento Aspie Saturday Film, che si tiene presso la sede di Roma di CuoreMenteLab. Clicca qui per prenotare gratuitamente.

Quello della depressione è un tema tutt’altro che nuovo, al cinema, pur nella varietà degli approcci attraverso i quali di volta in volta è stato declinato. Raramente, tuttavia, un film ha affrontato in modo così diretto – e, diciamolo pure, dirompente – l’argomento della depressione adolescenziale, con tutto il suo portato di drammatiche implicazioni, come ha fatto il regista Florian Zeller in questo The Son. Al momento dell’uscita di questo film, nel 2022, Zeller non era nuovo all’intreccio del tema della malattia con quello del dramma familiare: due anni prima, infatti, era uscito il suo The Father – Nulla è come sembra, che attraverso la straordinaria prova di Anthony Hopkins ci faceva entrare nella mente, progressivamente sempre più destrutturata, distaccata dalla realtà e dal bagaglio di ricordi che ne avevano costruito l’identità, di un uomo affetto da demenza senile; ora, il regista cambia il tema narrativo di base, l’ottica e il contesto, ma tiene saldo il motivo dell’impatto della malattia su un nucleo familiare già messo a dura prova dagli eventi del passato recente; oltre a quello dell’impotenza delle persone care di fronte a un nemico parimenti subdolo.

Al centro della trama di The Son – anch’esso, come il suo predecessore, tratto dall’omonima opera teatrale dello stesso regista – c’è il personaggio del diciassettenne Nicholas, il cui comportamento inizia a cambiare drasticamente dopo la separazione dei suoi genitori. La madre Kate (Laura Dern) chiede aiuto all’ex marito Peter (Hugh Jackman) dopo aver scoperto che il ragazzo da mesi non va più a scuola, e aver osservato la sua sempre maggior chiusura in se stesso; il giovane chiede e ottiene di trasferirsi a casa del padre, dove questi convive con la nuova compagna, Beth, e col figlio neonato da lei avuto, ma le cose non sembrano migliorare. Di tanto in tanto incline anche a piccoli atti di autolesionismo, Nicholas diventa sempre più evasivo sulle origini e la portata del suo malessere, mentre tanto Peter quanto Beth si scoprono impotenti di fronte al disagio sempre più evidente del ragazzo. Peter, da par suo, deve anche fare i conti con l’ombra di un padre dispotico e meschino (che vediamo in un cameo col volto di Anthony Hopkins) e con la ferrea volontà di essere, per suo figlio, un padre migliore di quanto questi non lo sia stato per lui.

Racconto “da dentro” del disturbo depressivo – che tuttavia si apre, anche significativamente, allo sguardo esterno su di esso, e allo scarto che drammaticamente esiste tra queste due dimensioni – The Son è un’opera di grande equilibrio, una trattazione rigorosa ed empatica della malattia che rifiuta la retorica. L’impotenza del punto di vista del giovane protagonista, la profondità del suo malessere e l’incapacità di comunicarla – in primis per la precipua incapacità da parte sua di comprenderla del tutto – sono costantemente giustapposte all’impotenza parallela di Kate e Peter; all’incapacità incolpevole di ascolto, e a una non comprensione che diventa inevitabilmente (e drammaticamente) sottovalutazione. Il dolore, da parte del ragazzo, si traduce ora in omissione, ora in deliberata bugia, nella vana speranza di ottunderne la portata, e di non trasmetterlo come un virus alle persone che ha accanto. Una scrittura di grande equilibrio, memore dell’origine teatrale del soggetto ma intelligentemente riadattata, evita qualsiasi retorica e qualsiasi tentazione di sguardo giudicante (con l’unica eccezione del personaggio interpretato brevemente – e come sempre magistralmente – da Hopkins): il film vuole raccontare una storia svolgendo uno scopo anche divulgativo, ma senza erigere muri.

In questo senso, The Son, pur nella sua durezza, caldeggia uno sguardo empatico e partecipato su un tema così drammatico e complesso da comprendere, tale da trasformare – in lungo e in largo – la vita di chi vi incappa; il film di Florian Zeller vuole in questo senso essere un’opera autenticamente divulgativa, capace di utilizzare con grande consapevolezza (ed equilibrio) lo strumento del cinema per raccontare una storia che possa fungere anche da richiamo e “monito” laddove non vi sia, del suo argomento, una conoscenza sufficientemente approfondita. Per saper riconoscere un grido di aiuto anche quando questo resta apparentemente muto, ma non per questo risulta, in realtà, meno urgente.

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